di Antonella Pederiva
“Al lettore
Stupidità e peccato, errore e lesina
ci assediano la mente, sfibrano i nostri corpi,
e alimentiamo i nostri bei rimorsi
come un povero nutre i propri insetti.
Son testardi i peccati, deboli i pentimenti;
vendiamo a caro prezzo le nostre confessioni,
e torniamo a pestare allegri il fango
come se un vile pianto ci avesse ripuliti.[…]
Ipocrita lettore, – mio simile, – fratello!”
È dedicata ai lettori la prima poesia, incipit, del libro “I fiori del male” di Charles Baudelaire. Centoventisei poesie che l’autore scrive e ordina seguendo un suo filo logico, che si interconnettono secondo una struttura stilistico-tematica, che però non toglie indipendenza ad ogni singolo componimento, che, effettivamente, si potrebbe discostare dal tutto senza perdere la sua essenza. Alcune di queste poesie subirono l’accetta della censura, i tempi non erano pronti per certi termini e certe parole in una società borghese puritana ma, al contempo, proiettata verso un progresso basato non su valori morali ma sull’utile economico. Il lettore con cui si rapporta Baudelaire, sembra allora essere un lettore capace di autocritica e di dubbi, un lettore che non si ferma all’apparenza ma dotato di capacità di discernimento, una persona in grado di comprendere le infinite contraddizioni, non solo della sua mente, ma anche della società in cui vive. Un uomo non perfetto, sbagliato e persino dissoluto, consapevole dei suoi errori e delle sue mancanze, ma perseverante, specchio proprio di quella società che sa ben predicare ma che razzola male. Stupidità e peccato, errore e lesina, avarizia, quel male atavico che giustifica l’utile a dispetto del debole. All’utile tutto può essere sacrificabile, salute, compassione, uguaglianza, fraternità, giustizia. Come sono attuali questi versi, come non compararli con i nostri tempi? “Sono testardi i peccati, deboli i pentimenti” e comunque basta qualche lacrima di coccodrillo per ripulire la coscienza, basta un soldo di questua. Qualche parola di rito per tornare contenti al nostro fango in attesa del prossimo mea culpa. Era scomodo, Baudelaire, come scomodi sono tutti i poeti cosidetti “maledetti”, poeti testimoni delle nefandezze dell’uomo, anche delle proprie, ma sinceri portatori di verità. In tutti noi c’è un giorno, ma c’è anche la notte, c’è la purezza del fiore che si contrappone all’impurità del male. La poesia di Baudelaire è un vento che soffia via la polvere della noia, che mette a nudo la realtà, che dà luce a questa verità. Il poeta si nutre e si abbevera alla fonte del disinganno, attinge dal suo vivere, mastica degrado e lo annota, regalandolo ai posteri e alla loro assoluzione o condanna.
SPLEEN II di Charles Baudelaire
Ho più ricordi che se avessi mille anni.
Un grosso armadio a cassettoni pieno di registri,
Di versi, di dolci biglietti, di documenti legali, di romanze,
Con qualche ciocca di capelli avvolta in vecchi scartafacci,
Custodisce meno segreti del mio triste cervello.
È una piramide, un’immenso sotterraneo,
Che contiene più morti che non un cimitero.
o sono un cimitero che la luna non visita,
Dove, come rimorsi, strisciano lunghi vermi
I quali assalgono sempre i miei morti più cari.
Sono un vecchi stanzino pieno di rose appassite,
Dove si ammonticchiano gli ornamenti fuorimoda,
Dove i vecchi pastelli e le tele del Boucher,
Da sole, respirano l’odore di un flacone aperto.
Niente eguaglia in lunghezza le lente giornate,
Quando sotto i pesanti fiocchi degli anni nevosi
La noia, frutto della triste mancanza di curiosità,
Prende le proporzioni dell’immortalità
Ormai non sei più, o materia vivente,
Che un blocco di granito circondanto da una vaga paura,
Assopito sul fondo di un qualche Sahara brumoso;
Una vecchia sfinge ignorata dal mondo indolente
Dimenticata sulla carta, e il cui umore scontroso
Non canta che ai raggi del sole morente.