DAVID MARIA TUROLDO IL PROFETA DEL NOVECENTO

Di Antonella Pederiva

Un cercatore, un uomo in cammino. Questo fu David Maria Turoldo. Un uomo di Dio, libero, non inchiodato a schemi, fedele all’essenziale, un profeta e poeta anticonvenzionale, che sapeva guardare al futuro con gli occhi fissi al presente, che sapeva cogliere la realtà e denunciare le magagne della società, anche di quella ecclesiastica di cui faceva parte. Un “non servo” anche se appartenente ai Servi di Santa Maria, l’antico ordine religioso nato a Firenze nel XIII secolo, dalla vocazione inquieta con la certezza dell’incertezza che non si piegò a nessun potere terreno. Umile e passionale, Turoldo era un disturbatore, uno di quegli uomini nati per scuotere le coscienze, un difensore degli ultimi, dei perseguitati, dei dimenticati, degli esclusi, dei condannati all’indifferenza. Il suo posto non era la sacrestia, era la piazza, insieme alle voci degli inascoltati, dei derisi, degli emarginati. La sua voce si univa alla loro ed era la voce del Cristo, che accoglie, che consola, che perdona, che ama. Giuseppe Ungaretti, che lo stimava, come Premessa al suo libro “Udii una voce”, scrisse: “La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza”. Di questa stoltezza, Turoldo era consapevole, conosceva e studiava l’animo umano, sapeva quanto l’uomo può essere crudele con i suoi simili, perché uomo attivo, coerente e partecipe del dolore degli oppressi. Poeta, tutto sommato, maledetto, snobbato dai critici del suo tempo, fu elemento essenziale della Resistenza, legato ad ogni lotta di liberazione. Colpito alla fine degli anni ottanta da un tumore al pancreas, visse con coraggio la sua sofferenza, senza chiedere grazie di guarigione, ma pregando per avere la forza di affrontare il dolore. Morì a Milano, il 6 febbraio 1992.

E NON CHIEDERE NULLA

Ora invece la terra

si fa sempre più orrenda:

il tempo è malato

i fanciulli non giocano più

le ragazze non hanno

più occhi

che splendono a sera.

E anche gli amori

non si cantano più,

le speranze non hanno più voce,

i morti doppiamente morti

al freddo di queste liturgie:

ognuno torna alla sua casa

sempre più solo.

Tempo è di tornare poveri

per ritrovare il sapore del pane,

per reggere alla luce del sole

per varcare sereni la notte

e cantare la sete della cerva.

E la gente,

l’umile gente

abbia ancora chi l’ascolta,

e trovino udienza le preghiere.

E non chiedere nulla.

ITINERARI

Liberata l’anima ritorna

agli angoli delle strade

oggi percorse, a ritrovare i brani.

Lì un gomitolo d’uomo

posato sulle grucce,

e là una donna offriva al suo nato

il petto senza latte.

Nella soffitta d’albergo

una creatura indecifrabile:

dal buio occhi uguali

al cerchio fosforescente d’una sveglia

a segnare ore immobili.

E io a domandare alle pietre agli astri

al silenzio: chi ha veduto Cristo?

PERDONA LE CHIESE

Perdona le chiese, i preti

prima fra tutti:

dei filosofi non cancellare il nome

dalla tua anagrafe.