GIUSEPPE UNGARETTI. TRA SIMBOLI E REALTÀ

di Antonella Pederiva

Una poesia che verte sulla parola, che frantuma i discorsi. Parole chiave efficaci che supportano una lirica essenziale, pura, che nasce da un istinto innato, da un “cogliersi” interiore, superbamente espresso. È questa la poesia di Giuseppe Ungaretti, il poeta che, con la raccolta “Sentimento del Tempo”, anticipa l’ermetismo. Conoscere la poesia di Ungaretti e innamorarmene fu un tutt’uno per l’adolescente che ero, i suoi versi furono rivelazione. Se amo la poesia e ho scelto di esprimermi attraverso di essa, io lo devo principalmente a questo uomo. In realtà la poesia faceva già parte della mia vita quando lo lessi per la prima volta. Fin da piccola, grazie anche ad una maestra accorta che non ringrazierò mai abbastanza, ero affascinata dai versi. Adoravo Leopardi, ero vicina ai suoi tormenti, ma Ungaretti fu la svolta. Esprimere un sentimento, un’emozione, un concetto attraverso l’uso delle metafore, stravolgendoli per renderli ancora più incisivi, più efficaci, più penetranti, costruire su simboli, su frammenti di pensieri e di vissuto, su intuizioni. Meraviglia! Tutto passa in secondo piano di fronte alla testimonianza della sua opera. Passa in secondo piano la sua vita, la sua biografia, le sue scelte politiche, tutto di Ungaretti si evince da ciò che scrisse, autentici capolavori destinati all’immortalità. Dai versi de “L’ Allegria” all’ultima poesia “L’ impietrito e il velluto”, pubblicata nel giorno del suo ultimo compleanno, pochi mesi prima della morte, passando attraverso “Il dolore”, “La Terra Promessa” e “Il taccuino del Vecchio”, Ungaretti procede in un percorso meditativo e simbolico improntato su una liricità intuitiva, fortemente innovativa, capace di arrivare al nucleo del sentimento.

Tante sarebbero le poesie che vorrei proporvi; per necessità di sintesi, posso solo, per ora, sceglierne una, tratta proprio da “Sentimento del Tempo”, contenuta nella sezione degli “Inni”, non senza promettervi nuovi articoli e nuove letture che lo riguardino.

LA PIETÀ

Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare

E finalmente giungere,

Pietà, dove si ascolta

L’uomo che è solo con sé.

Non ho che superbia e bontà.

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.

Ma per essi sto in pena.

Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente

Per cadere in servitù di parole?

Regno sopra fantasmi.

O foglie secche,

Anima portata qua e là…

No, odio il vento e la sua voce

Di bestia immemorabile.

Dio, coloro che t’implorano

Non ti conoscono più che di nome?

M’hai discacciato dalla vita.

Mi discaccerai dalla morte?

Forse l’uomo è anche indegno di sperare.

Anche la fonte del rimorso è secca?

Il peccato che importa,

Se alla purezza non conduce più.

La carne si ricorda appena

Che una volta fu forte.

È folle e usata, l’anima.

Dio guarda la nostra debolezza.

Vorremmo una certezza.

Di noi nemmeno più ridi?

E compiangici dunque, crudeltà.

Non ne posso più di stare murato

Nel desiderio senza amore.

Una traccia mostraci di giustizia.

La tua legge qual è?

Fulmina le mie povere emozioni,

Liberami dall’inquietudine.

Sono stanco di urlare senza voce.

2

Malinconiosa carne

Dove una volta pullulò la gioia,

Occhi socchiusi del risveglio stanco,

Tu vedi, anima troppo matura,

Quel che sarò, caduto nella terra?

È nei vivi la strada dei defunti,

Siamo noi la fiumana d’ombre,

Sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

Loro è la lontananza che ci resta,

E loro è l’ombra che dà peso ai nomi,

La speranza d’un mucchio d’ombra

E null’altro è la nostra sorte?

E tu non saresti che un sogno, Dio?

Almeno un sogno, temerari,

Vogliamo ti somigli.

È parto della demenza più chiara.

Non trema in nuvole di rami

Come passeri di mattina

Al filo delle palpebre.

In noi sta e langue, piaga misteriosa.

3

La luce che ci punge

È un filo sempre più sottile.

Più non abbagli tu, se non uccidi?

Dammi questa gioia suprema.

4

L’uomo, monotono universo,

Crede allargarsi i beni

E dalle sue mani febbrili

Non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto

Al suo filo di ragno,

Non teme e non seduce

Se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,

E per pensarti, Eterno,

Non ha che le bestemmie.

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