JOSÉ SARAMAGO. L’OSSERVATORE IMPLACABILE DEL MONDO

Di Antonella Pederiva

RAGIONI NON CHIEDETE

Ragioni non chiedete, non ne ho,

o ne darò a iosa: lo sappiamo

che le ragioni son parole, tutte nate

dal mite perbenismo che impariamo.

Ragioni non chiedete per capire

la forza di marea che m’empie il petto,

questo star male al mondo e in questa legge:

la legge io non l’ho fatta, il mondo io non l’accetto.

Ragioni non chiedete, né scusanti,

del modo mio d’amare e d’annientare:

quando la notte è troppa arriva l’alba

di primavera che dovrà spuntare.

Una data storica, una data importante per chi ama la poesia: il 16 novembre 1922, a Azinhaga, in Portogallo, nasce un intellettuale scomodo che ha lasciato un’impronta indelebile nella letteratura contemporanea, un osservatore implacabile delle meschinità di un mondo che ha fatto dell’individualismo la sua bandiera. Un mondo cieco, condizionato dall’egoismo e incapace di guardare a fondo nell’animo del prossimo.

“La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente.” Avanza lentamente l’epidemia di cecità nel suo libro omonimo, si insinua, apparentemente innocua, fino a sommergere tutto, una forza subdola, dall’apparenza tranquilla ma invece dotata di deciso potere distruttivo. “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.” Il messaggio è chiaro, dobbiamo imparare a guardare con altro mezzo, con occhi diversi di quelli che abbiamo nel viso, perché la verità, la realtà, spesso, non è quella che abbiamo davanti. È sagace, Saramago, caustico, spietato verso una società globalizzata, succube delle multinazionali, una società che non ha saputo difendere l’idea primordiale di democrazia, che ne ha spersonalizzato il nome, riducendolo a mero vocabolo. Uno “scrittore che con parabole sostenute con l’immaginazione, compassione ed ironia ci permette di afferrare ancora una volta, una realtà illusoria”, questa la motivazione di attribuzione del Premio Nobel per la letteratura, nel 1998. “L’uomo più saggio che io abbia conosciuto”, dirà, mentre riceve il riconoscimento e riferendosi al nonno, “non era in grado né di leggere né di scrivere”. Perché in fondo la saggezza non è nella cultura, intesa come ripetizione di nozioni, ma nell’esperienza e nella consapevolezza di una vita spesa a portare avanti la propria sensibilità ed umanità. Saramago fu anche poeta, non tecnico di poesia, ma portatore di versi rivelatori del suo sentire, onesto, libero, dissacratore che seppe usare la parola come pretesto per indagare e mettere a nudo le complessità del genere umano.

“Dimentichiamo troppo spesso che gli uomini sono fatti di carne facilmente rassegnata. È dall’infanzia che i maestri ci parlano di martiri, che diedero esempi di civiltà e di morale a loro spese, ma non ci dicono quanto doloroso fu il martirio, la tortura. Tutto rimane in astratto, filtrato come se guardassimo, a Roma, la scena attraverso spesse pareti di vetro che ammortizzano i suoni, e le immagini perdessero la violenza del gesto per opera, grazia e potere di rifrazione. E allora possiamo dirci tranquillamente l’un l’altro che Giordano Bruno fu bruciato. Se gridò, non lo sentiamo. E se non lo sentiamo, dove sta il dolore? Ma gridò, amici miei. E continua a gridare.” (da” A bagagem do viajante”). Tanti sono i martiri che la Storia ha conosciuto, tanti sono i martiri che ancora gridano, in queste nostre pagine di storia quotidiana, grida inascoltate, immagini dagli schermi, che guardiamo, senza che ci arrivi il dolore.

Di José Saramago

POESIA A BOCCA CHIUSA

Non dirò:

che il silenzio mi soffoca e imbavaglia.

Zitto io sto e zitto resterò:

la lingua che io parlo è d’altra razza.

Si ammucchiano parole consumate,

ristagnano, cisterna d’acqua morte,

acide pene in fango trasformate,

melma fangosa con radici storte.

Non dirò:

che non meritano neppur lo sforzo d’esser dette,

parole inette a dire quanto so

qui nel rifugio in cui non mi conoscono.

Non solo fango o melma si trascinano,

non solo bestie, morti, paure galleggiano,

turgidi frutti in grappoli s’intrecciano

nel nero pozzo da dove affiorano dita.

Dirò solo:

stizzosamente appartato e muto,

che chi si tace quanto io ho taciuto

non può morire senza dire tutto.