LA POESIA ATTUALE DI SALVATORE QUASIMODO

Di Antonella Pederiva

Il 20 agosto 1901, nasce a Modica (Ragusa) SALVATORE QUASIMODO. Grata per i suoi versi, così lo celebro:

Il poeta non si sottrae alle umane vicende. Il poeta vive nel mondo e, attraverso i versi, dialoga con la gente, la porta a riflettere con le sue metafore. Il poeta può solo essere tramite, mezzo espressivo di denuncia, di ogni sopraffazione, di ogni ingiustizia, cantore del quotidiano vivere. Le parole possono penetrare il muro dell’indifferenza, le parole devono efficacemente mostrare la via maestra. Compito del poeta è svelare, portare vento di rinnovamento che sollevi le nebbie dell’ignoranza e dell’apatia. In Thànatos Athànatos, come in tante altre poesie, Salvatore Quasimodo, che ricordo oggi nel giorno della sua nascita, dà prova della sua conoscenza dei sentimenti che dominano l’anima dell’Uomo e attraverso un monologo con Dio, invita a meditare sulla caducità della nostra esistenza. La sua è ricerca di verità, domanda che si fa urlo, che rimbomba oltre il muro del silenzio, quel silenzio estremo che mai nessuno ha potuto sconfiggere. La vita non è sogno, non vive di irrealtà, il dolore non è impalpabile, morde la carne, è pianto vero e straziante. Se la morte è immortale, quale speranza avremo?

THÀNATOS ATHÀNATOS

E dovremo dunque negarti, Dio

dei tumori, Dio del fiore vivo,

e cominciare con un no all’oscura

pietra «io sono», e consentire alla morte

e su ogni tomba scrivere la sola

nostra certezza: «thànatos athànatos»?

Senza un nome che ricordi i sogni

le lacrime i furori di quest’uomo

sconfitto da domande ancora aperte?

Il nostro dialogo muta; diventa

ora possibile l’assurdo. Là

oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi

vigila la potenza delle foglie,

vero è il fiume che preme sulle rive.

La vita non è sogno. Vero l’uomo

e il suo pianto geloso del silenzio.

Dio del silenzio, apri la solitudine.

Lo scenario dal quale diparte la poetica della raccolta “La vita non è sogno” è tragico. Sono gli anni che vanno dal 1946 al 1948, l’Umanità si è lasciata alle spalle una delle più grandi catastrofi della sua Storia, la seconda guerra mondiale. È la poesia della ritrovata dignità dell’Uomo, sono i ricordi che si fanno testimonianza, è la rivincita dell’umano contro il disumano. Quasimodo si riscopre “nuovo”. La traduzione dei “Lirici greci”, datata nello stesso periodo, rinforza la sua opera, il poeta trova nella filosofia un humus confortevole per fare emergere il suo sentimento di amarezza per il degrado a cui ha assistito inerme, ma mai complice.

Nascono poesie come:

DIALOGO

“At cantu commotae Erebi de sedibus imis

umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum.”

Siamo sporchi di guerra e Orfeo brulica

d’insetti, è bucato dai pidocchi,

e tu sei morta. L’inverno, quel peso

di ghiaccio, l’acqua, l’aria di tempesta,

furono con te, e il tuono di eco in eco

nelle tue notti di terra. Ed ora so

che ti dovevo più forte consenso,

ma il nostro tempo è stato furia e sangue:

altri già affondavano nel fango,

avevano le mani, gli occhi disfatti,

urlavano misericordia e amore.

Ma come è sempre tardi per amare;

perdonami, dunque. Ora grido anch’io

il tuo nome in quest’ora meridiana

pigra d’ali, di corde di cicale

tese dentro le scorze dei cipressi.

Più non sappiamo dov’è la tua sponda;

c’era un varco segnato dai poeti,

presso fonti che fumano da frane

sull’altipiano. Ma in quel luogo io vidi

da ragazzo arbusti di bacche viola,

cani da gregge e uccelli d’aria cupa

e cavalli misteriosi animali

che vanno dietro l’uomo a testa alta.

I vivi hanno perduto per sempre

la strada dei morti e stanno in disparte.

Questo silenzio è ora più tremendo

di quello che divide la tua riva.

«Ombre venivano leggere.» E qui

l’Olona scorre tranquillo, non albero

si muove dal suo pozzo di radici.

0 non eri Euridice? Non eri Euridice!

Euridice è viva. Euridice! Euridice!

E tu sporco ancora di guerra, Orfeo,

come il tuo cavallo, senza la sferza,

alza il capo, non trema più la terra:

urla d’amore, vinci, se vuoi, il mondo.

Così scriveva Quasimodo nel 1946: “L’uomo vuole la verità dalla poesia, quella verità che egli non ha il potere di esprimere e nella quale si riconosce, verità delusa o attiva che lo aiuti nella determinazione del mondo, a dare un significato alla gioia o al dolore in questa fuga continua di giorni, a stabilire il bene e il male, perché la poesia nasce con l’uomo, e l’uomo nella sua verità non è altro che bene più male”.

La guerra ha lasciato un segno profondo che ha impresso una svolta anche nel modo di scrivere del poeta, all’ermetismo si affianca una corrente più idonea al periodo storico di un’Italia alle prese con la ricostruzione e con i fantasmi dell’orrore appena trascorso.

Ne “IL MIO PAESE È L’ITALIA”, Quasimodo canta la sua tristezza, che è la tristezza di un intero popolo, che non dimentica, ma che vuole rinascere:

Più i giorni s’allontanano dispersi

e più ritornano nel cuore dei poeti.

Là i campi di Polonia, la piana di Kutno

con le colline di cadaveri che bruciano

in nuvole di nafta, là i reticolati

per la quarantena d’Israele,

il sangue tra i rifiuti, l’esantema torrido,

le catene di poveri già morti da gran tempo

e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,

là Buchenwald, la mite selva di faggi,

i suoi forni maledetti; là Stalingrado,

e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.

I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,

dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!

Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.

Il mio paese è l’Italia, o nemico più straniero,

e io canto il suo popolo, e anche il pianto

coperto dal rumore del suo mare,

il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

Si fa strada, prepotente, il desiderio di riscatto, quello che porterà il poeta all’impegno sociale e civile, che lo rivestirà di consapevolezza.

QUASI UN MADRIGALE

Il girasole piega a occidente

e già precipita il giorno nel suo

occhio in rovina e l’aria dell’estate

s’addensa e già curva le foglie e il fumo

dei cantieri. S’allontana con scorrere

secco di nubi e stridere di fulmini

quest’ultimo gioco del cielo. Ancora,

e da anni, cara, ci ferma il mutarsi

degli alberi stretti dentro la cerchia

dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno

e sempre quel sole che se ne va

con il filo del suo raggio affettuoso.

Non ho più ricordi, non voglio ricordare;

la memoria risale dalla morte,

la vita è senza fine. Ogni giorno

è nostro. Uno si fermerà per sempre,

e tu con me, quando ci sembri tardi.

Qui sull’argine del canale, i piedi

in altalena, come di fanciulli,

guardiamo l’acqua, i primi rami dentro

il suo colore verde che s’oscura.

E l’uomo che in silenzio s’avvicina

non nasconde un coltello fra le mani,

ma un fiore di geranio.

Sono nostri i giorni, sono nostre anche le nostre azioni da cui nasce il nostro futuro. I giorni a venire dipenderanno da cosa conterranno le nostre mani, coltelli o gerani? Il grido di Quasimodo è un grido attuale. L’Uomo non ha mai smesso di tradire sé stesso, immagine e somiglianza di Dio. Lo testimonia ogni guerra che insanguina, ancora oggi, il globo terrestre. Come in “Uomo del mio tempo”, poesia contenuta nella raccolta “Giorno dopo giorno”, straordinario monito rivolto ai posteri. Purtroppo, per tutti noi, Uomini di pace, disatteso.