MA QUALE NATALE!?

Di Antonella Pederiva

19 dicembre 2021. Per i cristiani è la quarta domenica di avvento, il giorno in cui si racconta come “Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo”. (Luca 1,39-41). Manca pochissimo a Natale, la festa delle feste dedicata alla nascita di un uomo che cambierà le sorti della Storia, che, si sia credenti o non credenti, è cassa di risonanza per l’affermazione di valori quali amore, fratellanza, unione, comunione, comunicazione, aiuto, carità, ascolto, tolleranza. “Salviamo il Natale” è lo slogan che si ripete in questi giorni tribolati di paura sanitaria. Ma il significato che viene dato a queste parole ha ben poco di religioso. Ciò che si vuole salvare concerne poco la sfera spirituale, intima, immateriale. Niente di nuovo sotto il sole, gli interessi economici si sono da tempo impadroniti di questa ricorrenza, come d’altronde hanno fatto con tutte le altre festività anche se, con questa, si raggiunge il culmine. Natale è un business troppo grande per rinunciarvi, sta all’economia come l’uvetta sta al panettone. E d’altra parte, l’uomo di pane vive, nonostante lo stesso per cui tutto ciò ha origine avesse detto il contrario. “Non in pane solo vivet homo, sed in omni verbo quod procedit de ore Dei”. Banalità. Per salvare il Natale, tutto sommato, si può anche abiurare lo spirito del Natale, si può passare sopra alle parole del festeggiato, quel bambino respinto già nel grembo di sua madre. Le parole che dirà e che i suoi discepoli diffonderanno sono “vox clamantis in deserto”, voce di uno che grida nel deserto, come disse Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti per interrogarlo. Il deserto siamo noi, con le nostre scienze esatte. Noi che disponiamo statuine sui nostri presepi, teatri dove ogni anno si svolge la commedia, a suon di canzoncine, di luci e di corse frenetiche verso i centri commerciali. “Non invitate a casa, parenti e amici non vaccinati”, tuona, invece, la voce del governo, salvo poi a raccomandare tamponi anche ai vaccinati, come fossero ostie consacrate. Non aprite le porte, chiudete i vostri cuori. La parola chiave non è “amore”, è “emergenza”, e in nome di questo novello valore supremo, tutto è permesso, tutto si può, calpestare diritti, denigrare, emarginare, discriminare, tutto finalizzato, però, al bene, al benessere comune. Non previsto nel dettato costituzionale, ma contemplato all’articolo 77, dove si prospetta la possibilità in capo al governo di adottare provvedimenti provvisori con forza di legge (il decreto legge) in “casi straordinari di necessità e urgenza”, lo Stato d’emergenza aveva la durata , inizialmente, di 180 giorni al massimo, prorogabili per ulteriori 180 giorni; poi il decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018 ne raddoppiò i limiti, consentendo il passaggio a 12 mesi al massimo prorogabili per altri 12 mesi, per un totale di 2 anni. Due anni, pertanto, che vengono ritenuti sufficienti per una nuova fase che sostituisca l’emergenzialità con l’organizzazione. Due anni, di fatto, che non sembrano bastare allo stato italiano che li prolunga oltre il limite previsto, in virtù, probabilmente, di poche azioni concretamente indirizzate a risolvere. Nel frattempo passeremo anche questo Natale, brinderemo, se ne avremo voglia, al nuovo Anno. Sempre più cupi e sempre più sconfitti, sempre più incerti verso la bontà dei provvedimenti, che se non sono serviti allo scopo di sconfiggere “la bestia”, sicuramente sono serviti allo scopo di dividere, di spaccare, di fomentare sentimenti che nulla hanno a che fare con la nascita che andiamo a festeggiare, con il messaggio che colui che viene al mondo porta con sé.