MARIO LUZI. LA POESIA CHE DURA OLTRE IL SUO ATTIMO

Di Antonella Pederiva

Mario Luzi è stato, per la poesia del Novecento, come il faro per il marinaio. Mario Luzi ha attraversato il suo tempo con il compito di portare luce e accendere speranze. Una poesia, la sua, coniugata a quell’ermetismo che fu luogo di espressione anche per poeti come Ungaretti, Quasimodo, Gatto, che arriva al cuore perché voce dei sentimenti di ognuno, che sa interpretare il vissuto di ognuno. Un poeta-testimone delle vicende umane, profondamente legato ai valori cristiani con i quali era cresciuto, un uomo che fece della ricerca il suo scopo di vita, che, fino all’ultimo, si interrogò sui grandi misteri dell’esistenza. Leggere Luzi è intraprendere un cammino dentro la propria anima, è accettare di essere piccola particella di quella creazione del cui senso ci sfugge. In bilico tra bene e male, tra gioia e sofferenza, i nostri passi si muovono sui sentieri dell’ignoto, speranzosi di futuro.

“La pace / se verrà, ti verrà per altre vie / più lucide di questa, più sofferte; / quando soffrire non ti parrà vano / ché anche la pena esiste e deve vivere / e trasformarsi in bene tuo e altrui”. Nessuno di noi è passato indenne attraverso il dolore, ognuno di noi ha sacrificato qualcosa e ricucito cicatrici, più o meno fonde. Insieme a Luzi, ci domandiamo anche noi quale sia il ruolo dell’amore e se davvero, un giorno, ne vedremo la vittoria.

Amici ci aspetta una barca e dondola

nella luce ove il cielo s’inarca

e tocca il mare, volano creature pazze ad amare

il viso d’Iddio caldo di speranza

in alto in basso cercando

affetto in ogni occulta distanza

e piangono: noi siamo in terra

ma ci potremo un giorno librare

esilmente piegare sul seno divino

come rose dai muri nelle strade odorose

sul bimbo che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo

e in lui una verità che precede

intrepida, un sospiro profondo

dalle foci alle sorgenti;

la Madonna dagli occhi trasparenti

scende adagio incontro ai morenti,

raccoglie il cumulo della vita, i dolori

le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.

Le ragazze alla finestra annerita

con lo sguardo verso i monti

non sanno finire d’aspettare l’avvenire.

Nelle stanze la voce materna

senza origine, senza profondità s’alterna

col silenzio della terra, è bella

e tutto par nato da quella.

(“Alla vita” da “La Barca”)

Dalla terra e dal suo grembo siamo nati, dalla barca che ci conduce verso lidi sconosciuti, osserviamo l’incedere dei giorni, vivendo o sopravvivendo ai marosi. Il riferimento della raccolta “La barca” di Luzi è chiaramente rivolto al sommo poeta Dante, suo conterraneo. Come Dante, anche Luzi unisce la letteratura al sacro, si veste di salvezza, non senza perdere di vista la quotidianità dell’esistere.

“Credi che il tuo sia vero amore? Esamina

a fondo il tuo passato” insiste lui

saettando ben addentro

la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.

E aspetta. Mentre io guardo lontano

ed altro non mi viene in mente

che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani

sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola,

dove una terra nuda si fa ombra

con le sue gobbe o un’altra preparata a semina

si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.

“Certo, posso aver molto peccato”

rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,

sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.

“Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso”

riprende la sua voce con un fischio

di raffica sopra quella landa passando alta.

L’ascolto e neppure mi domando

perché sia lui e non io di là da questo banco

occupato a giudicare i mali del mondo.

“Può darsi” replico io mentre già penso ad altro,

mentre la via s’accende scaglia

a scagliae qui nel bar il giorno ancora pieno

sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio

per le ore di libertà e l’uomo che le ha dato il cambio

indossa la gabbana bianca e viene

verso di noi con due bicchieri colmi,

freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.

(“Il giudice” da “Nel magma”)

Nel magma navighiamo, insieme ad altri, non siamo soli. Siamo giudici e giudicati, eternamente visti da altri, uomini dai mille nomi, solo nell’incontro ci ritroviamo.

“Questa felicità promessa o data/ m’è dolore, dolore senza causa/ o la causa se esiste è questo brivido/ che sommuove il molteplice nell’unico/ come il liquido scosso nella sfera/ di vetro che interpreta il fachiro”

(da “Questa speranza”, “Onore del vero”, 1957)

Mario Luzi sta alla poesia, come il cielo sta alla terra e ogni articolo è troppo breve per descriverne la grandezza, Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005) è “troppo” per essere compresso dentro ad una biografia. Mario Luzi è colui che è divenuto nello spazio ventoso del suo scrivere, colui che è durato e durerà oltre il suo attimo.Che Luzi non sia stato riconosciuto con il Nobel, una grande ingiustizia, mitigata solo dal lungo tempo che gli è stato concesso per donarci la sua opera.

MARIO LUZI APRILE-AMORE

Tempo che soffre e fa soffrire, tempo

che in un turbine chiaro porta fiori

misti a crudeli apparizioni, e ognuna

mentre ti chiedi che cos’è sparisce

rapida nella polvere e nel vento.

Il cammino è per luoghi noti

se non che fatti irreali

prefigurano l’esilio e la morte.

Tu che sei, io che sono divenuto

che m’aggiro in così ventoso spazio,

uomo dietro una traccia fine e debole.

È incredibile ch’io ti cerchi in questo

o in altro luogo della terra dove

è molto se possiamo riconoscerci.

Ma è ancora un’età, la mia,

che s’aspetta dagli altri

quello che è in noi oppure non esiste.

L’amore aiuta a vivere, a durare,

l’amore annulla e dà principio. E quando

chi soffre o langue spera,

se anche spera,che un soccorso s’annunci di lontano,

è in lui, un soffio basta a suscitarlo.

Questo ho imparato e dimenticato mille volte,

ora da te mi torna fatto chiaro,

ora prende vivezza e verità.

La mia pena è durare oltre quest’attimo.