Di Antonella Pederiva
“È molto più difficile dire no che sì”.Invita a conservare la propria dignità, Mario Rigoni Stern, che oggi celebriamo nel centenario della sua nascita, il 1° novembre 1921. E nessuno meglio di lui può farlo. Proprio lui che osò sfidare il potere e salire con orgoglio sul carro dei vinti. Impossibile per me non pubblicare lo stralcio intero del suo colloquio con il suo biografo, Giuseppe Mendicino, il 22 settembre 2006, ad Asiago, il suo paese.
“Eravamo numeri. Non piú uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B. Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salò, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto «Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!», abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.
E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo quello che avevamo visto, non potevamo piú essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva piú combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Piú di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento. Arrivai a casa che pesavo poco piú di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita. Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. È molto piú difficile dire no che sí. Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vi vuol far credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. Seguite solo la vostra voce. È molto piú difficile dire no che sí.
Un uomo, Rigoni Stern, di grande tempra morale, con un preciso codice etico, che includeva valori universali, come il senso di giustizia, il coraggio, l’amore per la natura, la generosità verso gli altri. Un uomo privo di retorica, schietto, sincero, forte di una forza costruita su un duro lavoro introspettivo. Un uomo ricco di umanità e di rispetto che il potere aveva mandato a combattere una guerra che non gli apparteneva, contro un nemico che non voleva riconoscere come tale. Chi tira le fila, si serve sempre del popolo, lavora bene per forgiare braccia che facciano per lui il lavoro sporco di annientare uomini, anime, all’unico scopo di imporre la sua volontà.
“Questi i risultati della pace e della libertà: lavorare e costruire per il bene degli uomini, di tutti gli uomini; non uccidere, distruggere e conquistare con la forza delle armi, ma vivere con il lavoro per la fratellanza e l’aiuto reciproco”, scriveva in una delle sue opere più celebri, “Il sergente nella neve”.”Nessuno pensava: se muoio; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?”
Siamo tutti fratelli, ci ricorda Rigoni Stern, uno dei più grandi ed intensi scrittori dell’Italia del dopoguerra, uno dei pochi sopravvissuti alla ritirata di Russia del 1943, e dobbiamo aprire gli occhi sulle trame del potere, smetterla di ubbidire a chi ci vuole mettere l’uno contro l’altro.
“Sul fiume gelido vi erano dei feriti che si trascinavano gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava; – Mama! Mama!Dalla voce sembrava un ragazzo. Si moveva un poco sulla neve e piangeva. – Proprio come uno di noi, – disse un alpino: – chiama mamma.La luna correva tra le nubi; non c’erano più gli uomini, ma solo il lamento degli uomini. – Mama! Mama! – chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre più lentamente, sulla neve.”