NON TUTTI GLI UOMINI SONO UGUALI

IL DRAMMA DEI MIGRANTI TRA BIELORUSSIA E POLONIA

Di Antonella Pederiva

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo…

Sono un poeta. Le parole di Primo Levi continuano a girare vorticosamente nel mio cervello. Considerate se questo è un uomo, voi, che vivete tranquilli, come se tutto ciò che succede ad altri uomini non fosse affare vostro. E, insieme alle parole, girano le immagini. Me le ha inviate Silvia Cavazzini, dalla frontiera tra Polonia e Bielorussia. Silvia è un’attivista di Gandhi Charity, un’associazione senza scopo di lucro, con sede a Milano, i cui progetti sono essenzialmente volti a fornire assistenza ai rifugiati ed ai migranti.  Ho conosciuto Silvia su Facebook, potere dei social, che, tra i loro innumerevoli difetti, hanno il pregio di unire vite, altrimenti lontane, di far conoscere persone che nella vita quotidiana non avresti conosciuto mai. Silvia è una giovane donna che un giorno ha deciso che non poteva restare indifferente di fronte alle sofferenze del mondo, una ragazza che ha scelto di non voltare lo sguardo di fronte alle ingiustizie. Silvia, sul suo profilo, parla in diretta, racconta le atrocità a cui sta assistendo. Lo fa con un sorriso, ma la voce si incrina, gli occhi a stento trattengono le lacrime. Quegli occhi hanno già visto tanto. Sono occhi di un essere umano che non si vuole rassegnare all’indifferenza, che vuole scuotere le coscienze addormentate di altri uomini, che prova, con tutte le sue forze, a cambiare il mondo. Fuori da quella stanza da cui parla, a pochi chilometri, uomini, donne, bambini stanno agonizzando, prigionieri e ostaggi di due nazioni, vittime della follia dei governi. 

«La Polonia, e in generale l’Ue, continuano a sostenere che si debbano bloccare i migranti in arrivo dalla Bielorussia perché si tratta di strumentalizzazione da parte di un Paese terzo. Ma non è che una persona non è più rifugiata per il solo fatto di essere strumentalizzata. È una contraddizione logica, prima ancora che morale. E l’unica soluzione è accogliere quelle persone in territorio polacco per poi risolvere la situazione con strumenti diplomatici e politici senza compromettere il diritto della persona a chiedere asilo». Sono parole di Gianfranco Schiavone, dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione. Silvia ne ha fatto una storia, sullo stesso social dal quale racconta le vicende a cui assiste quotidianamente.

“Ciao, come state? Io sto qui a testimoniare che quasi un centinaio di persone stanno morendo a pochi chilometri da me e noi stiamo facendo il possibile, ma nessuno risponde ai nostri appelli. E loro intanto, ora dopo ora, stanno morendo nell’indifferenza generale, bloccati tra gli spari e i cani delle guardie di frontiera bielorusse che non li fanno tornare indietro e i lacrimogeni delle guardie di frontiera polacche che non li fanno andare avanti. Stanno perdendo contatto con la realtà, qualcuno inizia a delirare per la fame. E il numero di persone bloccate in questo limbo è destinato a salire nei prossimi giorni. Spero voi ve la stiate passando meglio, ma mi piacerebbe davvero sapere come state, cosa pensate di questa situazione.” Questo scrive Silvia. E le sue non sono più parole. Sono pietre, pietre che seppelliscono ogni scusante, che non ammettono contraddittorio. Il cinismo e la brutalità degli uomini di potere non hanno più limiti. Un ragazzo camerunense, pochi giorni fa, è stato sbranato dai cani delle guardie di frontiera. Chiudete gli occhi e provate a sentire il dolore dei morsi. Immaginate che quel ragazzo sia vostro figlio. Provate a guardare con i suoi occhi. Un altro ragazzo siriano è stato costretto ad attraversare il fiume ed è morto annegato. Provate a sentire l’acqua ghiacciata che vi penetra nelle ossa, il terrore per l’imminente fine. Una donna ha partorito un figlio in quella striscia di terra. Un neonato che ha appena fatto in tempo a vedere la vita. Testimoni raccontano che mamma e figlio sono periti di stenti e di freddo. Nessun attivista può aiutarli, nessuno può penetrare in quello spazio che è già preludio di morte. Uomini, donne e bambini camminano tra i boschi, ai piedi ciabatte, scarpe leggere, le dita congelate dalle temperature rigide di questo inverno senza fine, i bambini piangono, tremano dalla paura e dal gelo. Sono piccoli. Non sanno nulla di politica, di strategie, di giochi di potere, di ricatti. Avrebbero solo diritto ad una casa, un letto, una tazza di latte caldo con i biscotti, un peluche da stringere al cuore. Nei boschi aleggia lo spettro della violenza e dei trafficanti di organi, lupi cattivi, ma non c’è lieto fine. Tra il cordone dei due fili spinati, nessun Salvatore, solo l’orrore, tragedie che gli smartphone non devono testimoniare perché è meglio non far sapere. I profughi scoperti a filmare corrono gravi rischi, il più lieve è la distruzione del cellulare. Silvia mi mostra le foto, mi racconta dei lager di Bruzgi, villaggio bielorusso situato proprio al confine, dove, in condizioni penose, vivono intere famiglie, spesso con figli disabili. Non hanno acqua, non hanno riscaldamento e, non di rado, si verificano soprusi e stupri.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

Conclude così, Pietro Levi la sua poesia.
Altro contesto, certamente, ma la sostanza è la stessa, l’apatia del mondo.

Una bambina ucraina, vestita con il tutù da ballo, sorride felice dalla pagina social di un politico. L’Umanità ha vinto. La piccola ballerina, fuggita dall’Ucraina in guerra, è salva, potrà continuare a ballare. I suoi occhi sorridono, il pubblico si commuove.

Poco più su dalla tragedia, le guardie che l’hanno accolta hanno la medesima divisa. Alla frontiera con l’Ucraina (quello stesso Paese che, a novembre, minacciava di aprire il fuoco contro i migranti se, attraversando il confine con la Bielorussia, avessero cercato di entrare nel Paese per poi raggiungere l’Ue), l’ordine impartito è diverso: accogliere, sfamare, costruire un ponte d’accesso veloce e sicuro.

Il 3 marzo il Consiglio europeo ha scelto (non era mai successo) di dare applicazione alla Direttiva 55 del 2001 “Sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi”. In virtù di questo le persone provenienti dal territorio ucraino e impossibilitate a farvi ritorno ricevono protezione immediata e la garanzia di accesso ai Paesi membri. Ma non tutti.
Solo i cittadini ucraini e quelli di paesi terzi che avevano già una forma di protezione internazionale in ucraina. Gli stranieri cosiddetti lungo soggiornanti nel paese, no. Per loro gli Stati sono liberi di scegliere se applicare o meno la direttiva o le norme internazionali in materia di asilo. I migranti con permesso temporaneo sono del tutto esclusi dalla misura straordinaria. Non tutti gli uomini hanno pari diritti. Nell’anno 2022, nazionalità e colore stabiliscono le priorità. Stabiliscono il destino. Essere nato in Ucraina non è uguale ad essere nato in  Siria. Le guerre e le persecuzioni sono più lievi, meno invasive, più giocose per i curdi, per gli afghani, gli yemeniti e gli africani? La pelle è più resistente, lo strazio più sopportabile?

Scrive ancora Silvia Cavazzini:
“Non so spiegarmi perché non sia in prima pagina ovunque la barbarie che sta avvenendo a letteralmente un metro dal confine europeo: guardie di frontiera che guardano morire delle persone di fame, di freddo e di stenti appena al di là del filo spinato. Perché l’Europa non ha ancora fatto nulla, dopo sei mesi, di fronte alla pratica illegale dei respingimenti di richiedenti asilo? Perché nessuno sta parlando di questa atrocità, di questa disumanità? Non me ne capacito.
Sogno un movimento nonviolento di massa che parta con una carovana di duecento macchine e vada a prendere tutte le persone bloccate al confine tra Polonia e Bielorussia e le porti in Europa con la stessa semplicità, spontaneità e gioia con cui stiamo portando gli ucraini.”

SILVIA SI RACCONTA

Mi sono laureata a marzo in Scienze Orientalistiche con una tesi sulla nonviolenza gandhiana. Ho vagato in cerca della mia strada fino a che non sono inciampata nel libro “La frontiera” di Alessandro Leogrande. Grazie a quel libro, appena mi è arrivata la notizia di quello che stava accadendo al confine polacco/bielorusso ho deciso di partire. Dapprima come volontaria per Nawal Soufi, poi attiva a tentare di dare supporto a chi è rimasto bloccato in Bielorussia, cercando anche vie legali per portare le persone in Italia (riuscendoci, per ora, solo una volta, con il caso della bimba malata di cuore, Nza, e i suoi genitori).
Collaboro con le attiviste di Hope & Humanity Poland e lavoro per Gandhi Charity, la cui presidente, Alganesh Fessaha, che ha ricevuto nel 2015 l’Onorificenza al Merito della Repubblica Italiana per il suo impegno nel salvare vite dalla tratta di esseri umani nel Deserto del Sinai, è colei che mi insegna questo lavoro, giorno dopo giorno.