RESTARE IN SILENZIO. IL MESSAGGIO D’AMORE DI NERUDA

Di Antonella Pederiva

Ora conteremo fino a dodici

e tutti ci fermeremo.

Per una volta sulla faccia della terra,

non parliamo alcuna lingua;

fermiamoci per un secondo

e smettiamo di gesticolare tanto.

Sarebbe un momento esotico,

senza fretta, senza motori;

ci troveremmo tutti insieme

in un’improvvisa stranezza.

I pescatori nel freddo mare

non farebbero del male alle balene

e l’uomo che raccoglie sale

si guarderebbe le mani ferite.

Quelli che preparano guerre verdi,

guerre coi gas, guerre col fuoco,

vittorie senza sopravvissuti,

indosserebbero abiti puliti

e camminerebbero con i loro fratelli

all`ombra, senza far nulla.

Quello che voglio non va confuso

con l’inerzia totale.

E`della vita che si tratta;

non faccio patti con la morte.

Se non fossimo ossessionati

dal tenere la vita in movimento,

e una volta tanto potessimo non far nulla,

forse un immenso silenzio

interromperebbe questa tristezza

di non capirci mai

e di minacciarci di morte a vicenda.

Forse la terra ce lo può insegnare,

come quando tutto sembra morto

e poi si dimostra vivo.

Ora conterò fino a dodici

e voi starete in silenzio e io me ne andrò.

Fa parte della raccolta Estravagario (1958) e comincia con un invito, la poesia di Pablo Neruda che voglio proporvi oggi nell’anniversario della sua morte, il 23 settembre 1973 a Santiago del Cile. Premio Nobel per la letteratura nel 1971, Neruda si trovò a vivere uno dei momenti più difficili nella storia del suo Paese. “Io non vado a morire. Vivrò!” ebbe a dire un giorno. Aveva ragione. La morte lo ha consacrato all’immortalità. Cantore delle passioni umane e dell’amore, sentimento che nobilita l’uomo e che rivela, attraverso di esso, la sua natura divina. Abbiamo tutti un disperato bisogno d’amore. Tutti, nessuno escluso. Solo nella terra dell’amore, l’Uomo, profugo e viandante, trova conforto della sua ansia e della sua irrequietezza, trova casa…”Penso”, disse al ritiro del premio, “che la poesia sia un’azione passeggera o solenne in cui entrano in pari misura la solitudine e la solidarietà, il sentimento e l’azione, l’intimità dell’individuo, l’intimità dell’uomo e la segreta rivelazione della natura”. Il poeta sa il valore del suo ruolo, sa che il vero poeta non è poeta solo quando scrive, ma in ogni gesto quotidiano della vita. Il poeta è mentore, è mezzo di comunicazione, è fondamento e non si sottrae al suo compito, qualsiasi compito egli si trovi ad affrontare, amoroso, politico o sociale. La sua morte, ancora oggi, resta avvolta nel mistero; l’ufficialità parlò di un decesso seguito agli esiti di un tumore, la realtà potrebbe essere totalmente diversa. Comunista, ammiratore pentito di Stalin e dell’Unione Sovietica, esule e perseguitato politico, sostenitore di Salvador Allende, il poeta morì poco dopo il golpe del generale Augusto Pinochet.

“Il Poeta agonizzò nella sua casa vicino al mare. Era malato e gli eventi degli ultimi tempi esaurirono il suo desiderio di vivere. La truppa gli aveva violato la casa, avevano rovistato tra le sue collezioni di conchiglie, di chiocciole, tra le sue farfalle, tra i suoi libri, tra i suoi quadri, tra i suoi versi inconclusi, cercando armi sovversive e comunisti nascosti finché il suo vecchio cuore di bardo non aveva cominciato a vacillare. Lo portarono alla capitale. Morì quattro giorni dopo e le ultime parole dell’uomo che aveva cantato alla vita furono: li fucilarono! Li fucileranno! Nessuno dei suoi amici poté stargli vicino nell’ora della morte, perché erano fuorilegge, profughi, esiliati o morti. La sua casa azzurra in collina era semi rovinata, il pavimento bruciato e i vetri rotti, non si sapeva se fosse opera dei militari, come dicevano i vicini, o dei vicini, come dicevano i militari”, scriverà Isabel Allende nel suo libro “La casa degli Spiriti”.”Starete in silenzio e io me ne andrò” termina così la poesia di oggi. “Non faccio patti con la morte, è della Vita che si tratta”, questa vita frenetica, esasperata ed esasperante, in cui continuiamo a minacciarci di morte a vicenda, noi, piccoli esseri dispersi nell’Universo. Forse la Terra ce lo potrebbe insegnare, a stare in silenzio, a trovare pace, se solo tendessimo l’orecchio alle parole della natura, ai ritmi della vita, così come fu agli esordi. Ritrovare la dimensione del silenzio, sforzarci poi di parlare la stessa lingua. La lingua universale dell’amore.