9 ottobre 1963. Per non dimenticare, vi ripropongo questo mio articolo:
Di Antonella Pederiva
Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963, quando dal monte Toc si staccò una frana che crollò sul bacino artificiale sottostante, provocando un’ondata che si riversò nella valle.
270 milioni di metri cubi di rocce e detriti sommersero Erto, Casso e Longarone, radendolo al suolo (1.450 morti e 487 bambini) poi le frazioni di Pirago, Rivalta, Villanova e, parzialmente, Faé. Il numero delle vittime di questa tragedia è approssimativo, poiché molti corpi non vennero mai ritrovati.
Allora, solo Tina Merlin, corrispondente per Belluno de “L’Unità”, raccolse le proteste degli abitanti di quelle zone durante la costruzione della grande diga dalla partenza dei lavori, nel 1957, solo lei ne segnalò i pericoli. Venne denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”, assolta, fu chiamata con disprezzo la “Cassandra del Vajont”.
“Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto”, scriveva Merlin, portando dati precisi e denunciando anche i rischi per Longarone. Rimase inascoltata. Il resto è cronaca, per la Giornalista, ed il G maiuscolo è d’obbligo, rimorso di non aver potuto fare di più.
“Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”, scrisse il giorno dopo la tragedia. Sì è imparato?
Ogni anno, il 9 ottobre, la notizia rimbalza di quotidiano in quotidiano, da telegiornale a telegiornale, ed è giusto così perché i ricordi aiutano a non dimenticare. Una ferita ancora aperta, il disastro del Vajont, una ferita che difficilmente si rimarginerà. È scritta in quella terra martoriata dove la natura sta riprendendosi i suoi spazi, è scritta e marchiata sulla pelle dei suoi abitanti che portano i cognomi delle vittime innocenti di una speculazione avida e immorale, del cinismo e della presunzione di uomini che hanno anteposto il denaro e la gloria al rispetto per la vita. Eravamo noi, quel giorno nei nostri letti, seduti nei nostri salotti. Eravamo noi, spazzati via dalla furia di quell’acqua che, prima dell’arrivo degli orchi, ci dava ristoro e nutrimento. In un attimo fummo portati via dalla corrente, scaraventati ovunque, e non fummo altro che corpi da piangere.
Pene lievi per i colpevoli, un procedimento giudiziario, giocato sul filo della prescrizione che ha deluso i sopravvissuti per le condanne a pochi anni, lievi se rapportate agli effetti dell’ondata. La giustizia però ha riconosciuto la prevedibilità dell’evento: la Sade (poi Enel) sapeva. E, cosa rarissima in Italia, ha riconosciuto responsabile, tra gli altri, anche lo Stato. Ma nessuna giustizia restituisce ciò che è perso, nessuna giustizia restituisce padri, madri, figli, fratelli, amici. Resta il monito, spesso solo commemorato, moltissime volte disatteso. Perché l’uomo fatica a cambiare, e mentre le bocche si riempiono di parole, le coscienze restano vuote e silenziose come quella valle dopo l’alluvione.