WISLAWA SZYMBORSKA. POESIA COME SALVEZZA

di Antonella Pederiva

Il 2 luglio 1923, a Kórnik, in Polonia, nasce Wisława Szymborska, Premio Nobel per la letteratura nel 1996.

Voglio ricordarla con una parte del suo discorso, in occasione proprio del conferimento del Nobel e con tre sue poesie. Non serve altro, nelle sue parole e nei suoi versi è già compreso il mio pensiero.

[…]Ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società.

Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so” sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca.

Anche il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d’una risposta provvisoria e del tutto insufficiente. Perciò prova ancora una volta e un’altra ancora, finché gli storici della letteratura non legheranno insieme prove della sua insoddisfazione di sé, chiamandole “patrimonio artistico”[…]

DI WISLAWA SZYMBORSKA:

AD ALCUNI PIACE LA POESIA

Ad alcuni –

cioè non a tutti.

E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.

Senza contare le scuole, dove è un obbligo,

e i poeti stessi,

ce ne saranno forse due su mille.

Piace –

ma piace anche la pasta in brodo,

piacciono i complimenti e il colore azzurro,

piace una vecchia sciarpa,

piace averla vinta,

piace accarezzare un cane.

La poesia –

ma cos’è mai la poesia?

Più d’una risposta incerta

è stata già data in proposito.

Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo

come alla salvezza di un corrimano.

FIGLI DELL’EPOCA

Siamo figli dell’epoca,

l’epoca è politica.

Tutte le tue, nostre, vostre

faccende diurne, notturne

sono faccende politiche.

Che ti piaccia o no,

i tuoi geni hanno un passato politico,

la tua pelle una sfumatura politica,

i tuoi occhi un aspetto politico.

Ciò di cui parli ha una risonanza,

ciò di cui taci ha una valenza

in un modo o nell’altro politica.

Perfino per campi, per boschi

fai passi politici

su uno sfondo politico.

Anche le poesie apolitiche sono politiche,

e in alto brilla la luna,

cosa non più lunare.

Essere o non essere, questo è il problema.

Quale problema, rispondi sul tema.

Problema politico.

Non devi neppure essere una creatura umana

per acquistare un significato politico.

Basta che tu sia petrolio,

mangime arricchito o materiale riciclabile.

O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma

si è disputato per mesi:

se negoziare sulla vita e la morte

intorno a uno rotondo o quadrato.

Intanto la gente moriva,

gli animali crepavano,

le case bruciavano e i campi inselvatichivano

come nelle epoche remote

e meno politiche.

DISATTENZIONE

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.

Ho passato tutto il giorno senza fare domanda,

senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,

come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,

ma senza un pensiero che andasse più in là

dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle,

e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –

e da dove è saltato fuori uno così –

e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro

(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti

perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un giorno più giovane

il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia era come non mai,

poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,

ma già in uno spazio lasciato per sempre.

È durato 24 ore buone.

1440 minuti di occasioni.

86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,

benché taccia sul nostro conto,

tuttavia esige qualcosa da noi:

un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal

e una partecipazione stupita a questo gioco

con regole ignote.