Di Antonella Pederiva
Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963, quando dal monte Toc si staccò una frana che crollò sul bacino artificiale sottostante, provocando un’ondata che si riversò nella valle.
270 milioni di metri cubi di rocce e detriti sommersero Erto, Casso e Longarone, radendolo al suolo (1.450 morti e 487 bambini) poi le frazioni di Pirago, Rivalta, Villanova e, parzialmente, Faé. Il numero delle vittime di questa tragedia è approssimativo, poiché molti corpi non vennero mai ritrovati. Ogni anno, il 9 ottobre, la notizia rimbalza di quotidiano in quotidiano, da telegiornale a telegiornale, ed è giusto così perché i ricordi aiutano a non dimenticare. Una ferita ancora aperta, il disastro del Vajont, una ferita che difficilmente si rimarginerà. È scritta in quella terra martoriata dove la natura sta riprendendosi i suoi spazi, è scritta e marchiata sulla pelle dei suoi abitanti che portano i cognomi delle vittime innocenti di una speculazione avida e immorale, del cinismo e della presunzione di uomini che hanno anteposto il denaro e la gloria al rispetto per la vita. Eravamo noi, quel giorno nei nostri letti, seduti nei nostri salotti. Eravamo noi, spazzati via dalla furia di quell’acqua che, prima dell’arrivo degli orchi, ci dava ristoro e nutrimento. In un attimo fummo portati via dalla corrente, scaraventati ovunque, e non fummo altro che corpi da piangere.