GIACOMO LEOPARDI. UN GIOVANE DEI NOSTRI TEMPI.

Di Antonella Pederiva

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Il 14 giugno 1837, durante l’epidemia di colera che colpì Napoli, moriva Giacomo Leopardi, poeta, scrittore, filosofo e filologo nato il 29 giugno 1798 a Recanati, nelle Marche. Di lui tanto è stato scritto e tanto si è detto, riconoscendogli il ruolo di figura di spicco nel panorama letterario mondiale e di maggior poeta dell’Ottocento italiano. Intorno a lui, però, parallelamente all’onore attribuito alla sua opera, si è, negli anni, edificata un’aura di pessimismo, di poeta sfortunato, se vogliamo anche di sfigato, come si suol dire ora, prendendo a prestito il gergo giovanile. Una leggenda tramandata negli anni e offerta agli studenti come verità assoluta, solo negli ultimi anni rivalutata e vista da un’ottica diversa, certamente e finalmente un’ottica figlia di maggiore comprensione e di maggiore analisi umana. Giacomo Leopardi fu un giovane uomo, amante della vita, spesso sopraffatto da essa, ostacolato dalla sua stessa famiglia, verso la quale provò a distaccarsi con la fuga, proprio come può succedere ad un giovane dei nostri tempi, uno di quei giovani a cui Leopardi meditava di scrivere una lettera. Torna, infatti, spesso nel suo “Zibaldone” il riferimento a questa “Lettera ai giovani del XX secolo” che non riuscì mai a completare. Nei suoi scritti ed appunti, si rivolge al futuro, incita le nuove generazioni a ribellarsi alle ingiustizie e all’egoismo dei vecchi. Era dotato, Giacomo, di una sensibilità fuori dal tempo, i suoi orizzonti spaziavano lontano e, come tutti i visionari, proprio per questo non fu compreso, addirittura umiliato e deriso. La grandezza non può mischiarsi alla pochezza, le menti piccole, proprio perché piccole non possono comprenderla. Fedele alla sua vocazione filosofica, Leopardi lottò per essa, la sublimò attraverso la poesia e i suoi versi, si oppose all’arretratezza e alla chiusura dei suoi contemporanei, dimostrando grande forza e risolutezza. Un uomo attuale, un uomo che ancora tanto può dire ed insegnare, un poeta da proporre e da far amare in un mondo che ha sepolto, o si propone di seppellire, il valore intrinseco ed universale, umano e indispensabile della poesia.

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.