Di Antonella Pederiva
Fare i conti ogni giorno con la propria sensibilità e con la propria inquietudine, seppellire i fantasmi di un’infanzia travagliata, soffocare quella voglia di abbandonare tutto e tutti, tutte le ingiustizie e le storture di un mondo che si vorrebbe diverso, in cui il vivere diventa un mestiere. “Ho imparato a scrivere, non a vivere” dirà una volta. Reggere il passo con le proprie emozioni non è facile, ancora più difficile se sei un poeta e ti chiami Cesare Pavese. Pavese non resse, il suo carattere schivo e solitario non lo aiutò. Il 27 agosto dell’anno 1950, in una camera d’albergo di Torino, immerso nella solitudine che aveva ormai divorato il suo cuore, sciolse 10 bustine di sonnifero nell’acqua e decise di addormentarsi per sempre. Sul suo comodino poche righe, scritte in fretta sulla prima pagina di un suo libro,
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” Quel “va bene”, credo esprima tante cose. “Siete contenti?”, sembra dire. Pavese aveva ceduto le armi, lasciato il posto ad altri. Chissà quante cose avrebbe potuto scrivere, quanti altri messaggi inviare ad un mondo con la coscienza addormentata! “Non fate troppi pettegolezzi”, non filateci su troppo. Sapeva bene, il grande poeta, quanto la gente possa essere malevola, quante parole senza senso sia in grado di sprecare. Forse l’ultimo pensiero sarà stato rivolto alla sua amata, forse no, chissà. Forse la morte avrà avuto proprio quegli occhi, come scrisse in una sua poesia, forse avrà avuto gli occhi di una vita mal sopportata. “Non parole. Un gesto. Non scriverò più” annoterà nel suo diario. La pagina portava la data del 21 agosto. Il poeta aveva già deciso, aveva deciso di rinunciare a combattere. Ci vuole più coraggio a restare o a fuggire? Non vorrei fare troppi pettegolezzi, come lui consigliò, quindi scriverò solo ancora che Pavese fu, che è, uno dei più grandi e talentuosi scrittori del Novecento capace di scrivere libri come “La luna e i falò”, “Lavorare stanca”, “Il compagno”, “Paesi tuoi”, “La bella estate” e poesie meravigliose come queste:
ASCOLTEREMO NELLA CALMA STANCA
Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.
L’AMICO CHE DORME
Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce.
Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo.
Il remoto silenzio soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio.
L’inutile luce svelerà il volto assorto del giorno.
Gli istanti taceranno.
E le cose parleranno sommesso.