di Antonella Pederiva
Il 22 agosto 1978 a Ginevra, in Svizzera, muore Ignazio Silone, scrittore, saggista e drammaturgo, ma anche politico. Su quest’ultima sua attività, tanto ci sarebbe da scrivere, talmente importante fu il suo impegno negli scenari complessi in cui visse e operò, (Silone venne eletto anche come membro dell’Assemblea Costituente, il parlamento che si occupò di redigere la nuova costituzione). Non voglio entrare nel merito (di sé dirà: “Sono un socialista senza partito e un cristiano senza Chiesa”); con la consapevolezza di quanto i fatti storici e le sue prese di posizione siano stati rilevanti nella stesura dei suoi libri e nella costruzione dei personaggi, rivolgo il mio interesse al Silone scrittore, il Silone che ho amato fin dai tempi della scuola, autore, tra gli altri, di capolavori come “Pane e vino”, “Il segreto di Luca”, “Il seme sotto la neve”, “L’avventura d’un povero cristiano”, “La scuola dei dittatori”, “Un viaggio a Parigi” e di saggi quali “Il fascismo. Origini e sviluppo”, “Memoriale dal carcere svizzero”, “L’avvenire dei lavoratori”. Ad un suo libro, “Fontamara”, candidato per ben 10 volte al Nobel per la letteratura, scritto nel 1933, in pieno regime fascista, vorrei dedicare un’attenzione particolare. “Fontamara” è un romanzo ambientato in un immaginario borgo dell’Abruzzo, nell’universo contadino a lui, nato e cresciuto a Pescina, nel cuore della Marsica, tanto caro.
Ve ne offro uno stralcio:
“Per andare a Roma adesso ci vuole il passaporto” gridò Berardo. “Ogni giorno ne inventano un’altra.”
“Perché?” domandò Baldissera. “Non è più dell’Italia?” Il suo racconto fu molto confuso.
“Stavo alla stazione” disse. “Avevo già fatto il biglietto. È entrata una pattuglia di carabinieri e han cominciato a domandare le carte a tutti, a chiedere le ragioni del viaggio. Io ho subito detto la verità e cioè che volevo andare a Cammarese per lavorare. Han risposto: “Bene, hai la tessera?”. Che tessera? “Senza tessera non si lavora.” Ma che tessera? Impossibile di avere una spiegazione chiara. Mi han fatto restituire il prezzo del biglietto e mi han messo fuori della stazione. Allora mi è venuta l’idea di andare a piedi fino alla stazione seguente e di prendere il treno di là. Appena fatto il biglietto, ecco due carabinieri. Dove vado? Dico, a Cammarese, per lavorare. Mi han domandato: “Fuori la tessera”. E io, che tessera? Che c’entra la tessera? “Senza tessera non si può lavorare”, dicono “così è nel nuovo regolamento dell’emigrazione interna.” Ho cercato di convincerli che io non andavo a Cammarese per l’emigrazione interna, ma soltanto per lavorare. Però è stato tutto inutile. “Noi abbiamo degli ordini” hanno detto i carabinieri. “Senza tessera non possiamo permettere di salire in treno a nessun operaio che si trasferisca in altra regione per lavorare.”
“Mi hanno fatto restituire il prezzo del biglietto e mi han messo fuori della stazione. Ma quella storia della tessera non mi andava giù. Sono entrato in una osteria e ho attaccato discorso con quelli che c’erano. “La tessera? Come, non sai che cos’è la tessera?” mi ha detto un carrettiere. “Durante la guerra non si parlava che di tessera.” Ed eccomi nuovamente qui, dopo aver perduto la giornata.”
Il più colpito dal racconto di Berardo fu il generale Baldissera che cercò fra le sue cartacce e tirò fuori un foglio stampato.
“Anche qui si parla di tessera” disse assai allarmato.
Infatti si parlava di tessera. La federazione dell’artigianato invitava perentoriamente il generale Baldissera a fornirsi della tessera di scarparo.
“Alcune settimane fa, anche Elvira ricevette una lettera simile” aggiunse Marietta. “Non c’è più libertà di lavoro. Le hanno scritto che se vuole continuare a esercitare l’arte della tintoria, deve pagare una tassa e fornirsi di tessera.”
Questa coincidenza delle lettere arrivate a Fontamara e degli incidenti toccati a Berardo mi indussero ad avanzare il dubbio che probabilmente doveva trattarsi di una burla:
“Cosa c’entra il Governo con l’arte dello scarparo e del tintore?” dissi. “Cosa c’entra il Governo coi cafoni che vanno in cerca di lavoro da una provincia all’altra? I governanti hanno altro da pensare” dissi. “Questi sono affari privati. Solo in tempo di guerra si ammettono prepotenze simili. Ma adesso non siamo in guerra.”
“Cosa ne sai tu?” mi interruppe il generale Baldissera. “Cosa ne sai tu se siamo in pace o in guerra?”
Questa domanda ci impressionò tutti.
“Se il Governo impone la tessera, vuol dire che siamo in guerra” continuò in tono lugubre il generale.
“Contro chi la guerra?” chiese Berardo. “È possibile che siamo in guerra senza che se ne sappia nulla?”
“Cosa ne sai tu?” riprese il generale. “Cosa ne vuoi sapere tu, cafone ignorante e senza terra? La guerra sono i cafoni che la combattono, ma sono le autorità che la dichiarano. Quando scoppiò l’ultima guerra, a Fontamara sapeva qualcuno contro chi fosse? Pilato s’incaponiva a dire che fosse contro Menelik, Simpliciano affermava che fosse contro i Turchi. Solo molto più tardi si seppe ch’era soltanto contro Trento e Trieste. Ma ci sono state guerre che nessuno ha mai capito contro chi fossero. Una guerra è una cosa talmente complicata che un cafone non può mai capirla. Un cafone vede una piccolissima parte della guerra, per esempio la tessera, e questa lo impressiona. “Il cittadino” vede una parte molto più larga, le caserme, le fabbriche d’armi. Il re vede un intero paese. Solo Dio vede tutto.”
“Le guerre e le epidemie” disse il vecchio Zompa, “sono invenzioni dei Governi per diminuire il numero dei cafoni. Si vede che adesso siamo di nuovo in troppi.”
“Ma, insomma, tu la tessera la prenderai?” chiesi a Baldissera, per farla finita.
“Prenderla? La prenderò” egli rispose. “Ma pagarla, puoi star sicuro, non la pagherò.”
Nonostante il diverso modo di esprimerci, si può dire, dunque, che in fondo eravamo pienamente d’accordo.”