Il 2 novembre 1975, muore assassinato uno dei maggiori poeti ed intellettuali di questo secolo, Pier Paolo Pasolini. Le circostanze della sua morte restano a tutt’oggi ancora un mistero. Verrà accusato un ragazzo di 17 anni che confesserà e verrà condannato ma che 30 anni dopo ritratterà tutto, dichiarando di essersi addossato la colpa per timore di ritorsioni, senza però fare i nomi dei presunti esecutori del delitto. Una cosa è certa, Pasolini era un uomo scomodo, che aveva osato scoperchiare tanti vasi di Pandora. Erano molti, a quel tempo, a trarre grande vantaggio dalla sua dipartita, politici, sia di destra che di sinistra, imprenditori, mafiosi. Una tragica fine che privò il mondo letterario di un artista unico, un poeta come ne nascono solo tre o quattro in un secolo, come disse un altro grande di quel tempo, Alberto Moravia, all’orazione funebre. “Una perdita irreparabile”, dirà Moravia, “un uomo profondamente buono, mite, gentile […] che aveva il coraggio di dire la verità. Uno buono come Pasolini sarà difficile trovarlo. Uno disinteressato, dall’assoluta mancanza di calcoli”. Pasolini era un uomo controcorrente, uno spirito libero, un regista che seppe guardare al mondo del sottoproletariato, alle borgate, da dove sperava potesse nascere un’ alternativa sociale, ma anche politica, a quella società capitalistica, che accusava di essere causa e principio di tutti i problemi dell’individuo. Come dimenticare “Mamma Roma” in cui una superba Anna Magnani recitava il ruolo di una prostituta e “Uccellacci Uccellini”, che vede come protagonista un incredibile Totò, insieme ad uno straordinario Ninetto Davoli?<br>Per i suoi film, autentici capolavori, verrà anche condannato, non solo dalla morale del tempo ma anche dalla giustizia penale e finirà per scontare anche l’umiliazione della prigione. Nei suoi scritti, tante verità, la capacità di guardare lontano, di vedere oltre. Nei suoi occhi, la visione di un mondo più umano, occhi capaci di scrutare le miserie umane, di diventarne partecipe, la missione di condurre gli altri a partecipare. Nessuno mai dovrebbe offendere un poeta, nessuno mai dovrebbe spegnerne la voce. La letteratura e l’arte, da quel 2 novembre, saranno per sempre orfane di un padre che avrebbe potuto dare loro, ancora, cibo e nutrimento…. IL PIANTO DELLA SCAVATRICE Nella vampa abbandonata del sole mattutino – che riarde, ormai, radendo i cantieri, sugli infissi riscaldati – disperate vibrazioni raschiano il silenzio che perdutamente sa di vecchio latte, di piazzette vuote, d’innocenza. Già almeno dalle sette, quel vibrare cresce col sole. Povera presenza d’una dozzina d’anziani operai, con gli stracci e le canottiere arsi dal sudore, le cui voci rare, le cui lotte contro gli sparsi blocchi di fango, le colate di terra, sembrano in quel tremito disfarsi. Ma tra gli scoppi testardi della benna, che cieca sembra, cieca sgretola, cieca afferra, quasi non avesse meta, un urlo improvviso, umano, nasce, e a tratti si ripete, così pazzo di dolore, che, umano, subito non sembra più, e ridiventa morbido stridore. Poi, piano, rinasce, nella luce violenta, tra i palazzi accecati, nuovo, uguale, urlo che solo chi è morente, nell’ultimo istante, può gettare in questo sole che crudele ancora splende già addolcito da un po’ d’aria di mare… A gridare è, straziata da mesi e anni di mattutini sudori accompagnata dal muto stuolo dei suoi scalpellini, la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco sterro sconvolto, o, nel breve confine dell’orizzonte novecentesco, tutto il quartiere…E’ la città, sprofondata in un chiarore di festa, è il mondo. Piange ciò che ha fine e ricomincia, Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch’è spento dolore. Piange ciò che muta, anche per farsi migliore. La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci: è qui, che brucia in ogni nostro atto quotidiano, angoscia anche nella fiducia che ci dà vita, nell’impeto gobettiano verso questi operai, che muti innalzano, nel rione dell’altro fronte umano, il loro rosso straccio di speranza.