UMBERTO SABA. L’ARTE DELLA SEMPLICITÀ

Di Antonella Pederiva

SERA DI FEBBRAIO

Sera di febbraio

Spunta la luna.

Nel viale è ancora

giorno, una sera che rapida cala.

Indifferente gioventù s’allaccia;

sbanda a povere mete.

Ed è il pensiero

della morte che, infine, aiuta a vivere.

È una poesia semplice, quella di Umberto Poli, in arte Saba (cognome probabilmente scelto per onorare l’adorata balia Peppa Sabaz), facilmente comprensibile, popolana e popolare, lontanissima dalla poesia di Ungaretti e di Montale con i quali ha condiviso il periodo storico e le tristi vicende di guerra. Impossibile per un poeta non essere influenzato dalle difficoltà del vivere quotidiano, impossibile non offrire la propria penna e la propria arte a testimonianza del dolore, della sofferenza, dell’insensatezza delle azioni dell’uomo. Le sensazioni, le emozioni, i sentimenti che un poeta esprime attraverso le sue parole, sono le voci del mondo, versi in cui il mondo riconosce sé stesso. Come Ungaretti e Montale, Saba porta la sua esperienza, ma un’esperienza più cruda perché marcata dall’allora infamia di essere ebreo. In più occasioni e nei periodi più bui, né Ungaretti né Montale gli faranno mancare il loro appoggio. Montale, in particolare, andrà a trovarlo ogni giorno, a rischio della sua vita, quando sarà costretto a nascondersi. Gli episodi tragici del conflitto, incideranno non poco sulla sua psiche, come non poco incise il tradimento e l’allontanamento dell’amata moglie Lina, che lo precederà di soli nove mesi nella morte, il 25 agosto 1957.

Senz’addii m’hai lasciato e senza pianti;

devo di ciò accorarmi?

Tu non piangevi perché avevi tanti,

tanti baci da darmi.

Durano sì certe armoniose intese

quanto una vita e più.

Io so un amore che ha durato un mese,

e vero amore fu.

Eccolo qui, anche nella poesia “L’addio”, lo stile di Saba, versi scarni, certamente non ermetici, di facile comprensione, facilmente fruibili e condivisibili. Nessuna pomposità, assenza di mistero, niente da aggiungere e niente da togliere ma ugualmente profondi.

CITTÀ VECCHIA

Spesso, per ritornare alla mia casa

prendo un’oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va

dall’osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l’infinito

nell’umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d’amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

più puro dove più turpe è la via.